Giannetto Cerquetelli

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Giannetto Cerquetelli nacque a Roma il 12 aprile 1917.

Si laureò in medicina nel 1941, conseguì la specializzazione in Neuropsichiatria e la Libera Docenza. In età giovanile diventò neurochirurgo infantile e fu medico di guerra. Nel suo studio conservò per sempre, con estrema cura, un quadretto salvato da un bombardamento, unico superstite della casa di una gestante che aveva aiutato, prima a partorire, e poi a fuggire. Fisico da fiumarolo, come si amava dire un tempo nella Capitale, era grande amante del canottaggio a cui dedicò svariate imprese*. Appassionato di Roma e del grande Petrolini, non trascurò mai lo sport che riteneva una grande risorsa per la riabilitazione psichiatrica.

 

*Comunicato stampa Tevere Remo

Dal 1973 ad oggi la Roma Anzio è stata ripetuta cinque volte con yole da quattro e da otto; in due casi l’avventura si è protratta fino a Napoli. Nell’ ultimo trentennio, l’8 luglio 1971 ha aperto i giochi l’indimenticabile, formidabile equipaggio formato da Cerquetelli, Trombetta, Ricci S., Ansuini N., accomunati in una faticosa prova.

 

Nell’arco della vita ha pubblicato numerose opere su svariati argomenti. Spicca fra tutti un lavoro statistico sul suicidio (Il suicidio. Studio statistico e psicopatologico, ca. 1940), probabilmente dedicato alla madre, morta suicida, che fu certamente la ragione dei suoi studi e della sua professione. Un’importante pubblicazione fu una monografia su Le personalità psicopatiche, scritta a quattro mani con il prof. Catalano Nobili per Pozzi Editore, con la prefazione del professor Ugo Cerletti (1953), cui dedicò, negli anni, diverse revisioni (tra queste: Sviluppi psicopatici, del 1955 e Psicopatici. Revisione del concetto di personalità psicopatica, del 1974).

Altro titolo significativo fu Elementi di psicopatologia teoretica.

 

Da Treccani.it: Gli interventi di chirurgia cerebrale, le correlazioni neuro-radiologico-cliniche, le terapie di shock (v. Catalano Nobili e Cerquetelli, 1972; v. Fink, 1979), di ipnosi (v. Granone, 1972), di decondizionamento (v. Pancheri, 1979) hanno allargato l’orizzonte della comprensione e hanno consentito elaborazioni teoretiche di grande interesse.

 

Unitamente ai professori Bini, Cerletti e Catalano Nobili, sostenne la terapia da Elettroshock per la cura della depressione, definendo quest’ultima ‘male del secolo’, elezione terapeutica che gli procurò non poche contestazioni, polemiche e accesi detrattori.

Tuttavia, continuò a sostenere quello che ancora oggi la Fondazione Veronesi ribadisce con forza: “Non possiamo rinunciare a una tecnica che dà buoni risultati contro la depressione nel settantacinque per cento dei casi”

Trattò il tema nella pubblicazione Elettroshock, trent’anni di esperienza (1972) scritta a quattro mani con Catalano Nobili e presentata dal professo Vizioli per Il Pensiero scientifico Editore.

 

Da Treccani.it:  si arriva all’elettroshock di U. Cerletti e L. Bini (1938), rivelatosi di inestimabile valore per la terapia delle gravi depressioni e tuttora valido (v. Paterson, 1963; v. Kalinowski e Hippius, 19693; v. Catalano Nobili e Cerquetelli, 1972; v. Royal College of Psychiatrists, 1977; v. Fink, 1979), per approdare, nel 1943, ai ganglioplegici e dopo pochi anni ai neurolettici.

 

Per le pubblicazioni minori scrisse molto. Fra le tante troviamo Analisi del concetto di coscienza, scritto con Bruno Calleri, Ed. Santa Maria della Pietà (1954), per Clinica Psichiatrica troviamo Anomia e nevrosi (1967), Dinamiche familiari, tentativo di formulazione di modelli concettuali (1974), Proposta per una analisi della formazione del linguaggio (1975).

Insieme al prof. C. Catalano Nobili fondò nel 1965 L’Istituto di Studi Psicologici e Psichiatrici “Villa S. Rita” a Roma, nella sede dell’omonima clinica psichiatrica, diretta da entrambi, dove esercitò la professione di neurologo e psichiatra. L’Istituto, con personalità giuridica dal gennaio 1966, fu editore della rivista Clinica psichiatrica e sede di numerosi corsi di formazione per psichiatri e psicoterapeuti. Ad esempio, il corso biennale di Psicoterapia Comportamentale, in linea con le ricerche che al tempo lo appassionavano. Infatti, negli anni ’70 si dedicò molto al settore behavioristico condizionale, cercando di realizzare una sintesi fra le apparenti differenze che separavano tendenze psicodinamiche e comportamentali nell’ambito della psichiatria.

In questo stesso periodo scrisse a quattro mani con il prof Aldo Durante I riflessi condizionati nella vita quotidiana, (Rizzoli, 1970), argomento che lo appassionò fino alla fine, probabilmente, intuendo gli scenari che si sarebbero aperti a seguito di quanto ci raccontava Vance Packard già nel lontano 1950: “L’impiego della psicanalisi di massa nelle grandi offensive di ‘persuasione’ sta ormai alla base di un’industria multimiliardaria”. Dove le moderne teorie e gli studi sui riflessi condizionati si ritrovano oggi in quelle tecniche chiamate sommariamente Neuroweb e Social engineering.

 Il rapporto con i pazienti fu di autentica e generosa dedizione per tutto il periodo di attività nella Clinica S. Rita e successivamente, nell’esercizio della professione presso il suo studio: fu sempre vissuto come prioritario, al pari della sua famiglia. Aveva un’abnegazione totale per l’amatissima moglie, Luciana Albonetti. Quando lo lasciò, improvvisamente, nel 1995, uscì di casa con lei, il giorno dei suoi funerali, senza portare nulla con sé, decidendo di non farvi più ritorno: non poté sopportare la prosecuzione di una vita quotidiana nella loro casa, in sua assenza.

Nel 1999, ormai anziano, perse il figlio Francesco, che si tolse la vita nel suo studio di psicoterapia. “Gli psicoanalisti, specialmente quelli che lavorano con pazienti gravi, sono la categoria a più alto rischio di suicidio” ebbe a dichiarare il professor Cancrini in occasione del drammatico evento.* (La Repubblica, 3 marzo 1999)

Giannetto Cerquetelli si spense a Roma il 10 maggio 2002. Ci piace ricordarlo con una frase di un libro che fu oggetto ricorrente dei suoi studi, fino alla fine: “Nessuno ha il coraggio di dirlo: si tace sempre sull’essenziale, perché non siamo capaci di sopportarlo” (tr. it. Dio e la Scienza, Jean Guitton, con Igor e Grichka Bogdanoff, Bompiani, 1991).

Per tutta la vita non smise mai di studiare. Dalla metà degli anni ’80 in poi si dedicò a ricerche che lo portarono ad archiviare materiali e una miriade di appunti (spesso presi in modo estemporaneo sui fogli del suo ricettario) per quel che definiva un’anatomia critica della psiche, nel rapporto tra individuo e cultura. L’immenso repertorio a cui il suo studio si rivolse era per lo più il linguaggio, bacino inesauribile di archetipi e simboli. E da qui presero forma le sue analisi circa miti, narrazioni, forme di comunicazione.

A titolo di esempio, tra le ultime letture a cui dedicò molta riflessione, vi è il testo di Northrop Freye, Il Grande Codice (tr. it., Einaudi, 1986), che interpreta la Bibbia come una sorta di opera-mondo, contenitore delle forme e dei modi della letteratura comune a tutto l’Occidente.

Tra gli articoli pubblicati in questo periodo ci piacere ricordare il seguente, che riportiamo integralmente:

 

pubblicato in:

Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria

(n. 27, Roma, 1996, pp.3-4)

 

di Giannetto Cerquetelli*

Il teatro è stata la prima forma di comunicazione dell’affettività umana espressa e rappresentata. Nel teatro greco i drammi umani vengono rappresentati nella loro totalità: nel rapporto che si crea tra l’attore e la vicenda drammatica. La formula del teatro greco con il coro, le maschere ed il pubblico crea quel feed back che induce lo spettatore ad una identificazione con la maschera dell’attore riscontrando in se stesso la stessa problematicità rappresentata nella scena (catarsi) .
Non è un caso che i “padri” della psicologia moderna abbiano utilizzato personaggi del teatro greco come Edipo, Elettra per definire dei complessi dell’uomo moderno che probabilmente rappresentano un archetipo della complessualità dell’uomo in tutte le epoche storiche. Jung nella descrizione della personalità denomina come “maschera” l’aspetto esteriore dell’individuo che ne definisce il ruolo e che “serve ad innalzare o a modificare la personalità” (Persona).
Le origini del teatro greco sono da ricercare nei riti dionisiaci. Anche in questo caso venivano usate le maschere rappresentative delle persone mentre gli affetti venivano delegati alla recitazione priva della mimica in quanto coperta dalla maschera. I punti di contatto fra teatro, psicologia e psicoterapia sono secondo me sottolineati anche dalla quantità di metodologie terapeutiche che utilizzano tecniche teatrali per consentire al paziente di mettersi in contatto con la sua affettività. Pensiamo allo psicodramma di Moreno in cui il gruppo viene invitato a recitare i vari ruoli e le varie dinamiche presenti in una situazione familiare o sociale di uno dei partecipanti al gruppo stesso. Osserviamo inoltre come Jung, nella sua tecnica della immaginazione attiva, inviti i suoi pazienti ad escludere l’effetto egoico in favore delle immagini interne che possano, in questo modo, aprirsi agli affetti più profondi e meno controllati dalla coscienza e dall’Io. Ed ancora vediamo la Gestalt con la tecnica della “sedia calda”, o il sogno guidato di Desoille o la ricerca sulle immagini mentali.
Anche in ambito psicologico si può vedere come nella “psicologia del lavoro” vengono usate metodologie che si richiamano in qualche modo alle rappresentazioni teatrali ad esempio i cosiddetti “giochi di ruolo”.

Leggere Re Lear o assistere ad una esecuzione di Re Lear è come ritrovarsi attori in un gioco che ci fa entrare di colpo in una verità così totale e folgorante che dalla prima parola l’intero universo con la sua molteplicità viene ad identificarsi nel caso particolare rappresentato.

Quel mondo incredibilmente complesso che fino al momento dell’inizio della tragedia o della commedia era fuori di noi (e contemporaneamente dentro di noi) restringe, senza diminuirsi né impoverirsi, lasciandoci scorgere, come guardando dal buco di una serratura, la nostra vita; così, caduti in noi stessi diventiamo l’invenzione del drammaturgo, rinasciamo nei luoghi dove egli ci trasporta e là dove ci porta noi fatichiamo, godiamo, saremo stranamente familiari con tutte quelle ignote persone che interloquiscono dalle pagine che leggiamo e nel teatro dove le sentiamo direttamente da altre persone che si agitano nella scena cioè in quella stanza dove giocammo da bambini e da quella stanza entriamo in un’altra stanza dove oggi risentiremo quelle esperienze oscure della mente che si concentra in quelle due ore di spettacolo che non sono più passato o futuro che non sono più dimensioni dell’eterno del tempo ma due specchi che si autoriflettono come un rapido riflettersi di persone: ed è qui che teatro e psicologia si toccano e diventano una sola cosa. Infatti J. J. Rousseau intuisce la ragione profonda fra diseguale ed uguale fra alienato e diciamo normale o eguale e sa bene che quel che succede a teatro succede con ben maggior forza nello spettacolo della vita, e non solo perché l’alienato il diseguale offende la giustizia ma perché prevalentemente si esclude dalla partecipazione sociale ed è qui che teatro e psicologia si incontrano nella pratica attuale.

Il fatto teatrale nella sua massima espressione ci rimanda al nostro Io immortale. Nel teatro noi entriamo nei dialoghi e nelle emozioni che sentiamo, entriamo nel dramma degli eroi, viviamo il dramma degli eroi, ci immettiamo nei teatranti e in qualche modo restituiamo loro le nostre emozioni. L’artista attinge il suo patrimonio dai suoi ricordi dalle sue emozioni vissute intensamente durante l’infanzia e la giovinezza ma attinge dalla società in cui vive e se ne nutre e la sua opera diventa universale. Non perché ignora la sua realtà concreta ma perché se ne immerge fino in fondo e ne cava ciò che è generalmente umano. Tutto ciò che se ne stacca diventa astratto, strampalato, inutile, per poter creare per poter inventare il nuovo l’ignoto bisogna avere una fede profonda.

*Libero docente di Neuropsichiatria
presso l’Università di Roma.

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