Il documentario THE GREAT HACK disponibile su NETFLIX

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THE GREAT HACK privacy violata (recensione)

I filosofi ci raccontano che l’angoscia, nell’uomo, nasce dal senso di vertigine con cui la libertà, spesso, ci percuote.
Sartre, invece, puntava il dito sull’angoscia di scegliere.

Ma è un fatto che alla radice di tutti questi timori vi sia un sentimento comune, umano, condiviso: la solitudine.
Immaginiamo che qualcuno avesse trovato il modo per placare questo senso di angoscia, o il modo di creare una grande illusione per ingannare questa grande angoscia.

Quanto potrebbe valere quest’illusione? 
Quanto potrebbe valere l’illusione di sentirsi cercati, accolti, ricordati, ammirati, compresi, corteggiati?
 Mettete insieme tutte le ipotesi che avete fatto e avrete una piccola idea della potenza del web.

Già, un’immensa rete dei balocchi dove ciascuno di noi ha colto l’invito più allettante, il gioco più divertente, la consolazione soverchiante, la lusinga più arrapante.
Rapiti da questi miraggi, nessuno (nessuno!) che abbia pensato di chiedere ‘info’ sulle regole del gioco.

E continuando a giocare, postandoci su Facebook, girando una foto su whatsapp, cercando un vecchio compagno di scuola, acquistando la pillola on line, abbiamo continuato ad ignorare le regole del gioco.
E abbiamo prodotto tanti dati.

Ma nell’immenso spazio cosmico della rete, in verità, non eravamo soli. Qualcuno ha incominciato a raccogliere le nostre molliche, le nostre luminose scie di dati e le ha trasformate in oro.
In breve tempo i nostri dati sono diventati tanti, tantissimi, importanti, necessari, tanto da superare per ricchezza e abbondanza il valore del petrolio.

Dal 14 luglio di quest’anno, su Netflix, il documentario The Great Hack ci racconta, con estrema lucidità, le regole di questo gioco globale, i termini e le condizioni che, per l’impeto e la voglia di giocare, non abbiamo mai consultato.

David Carrol, professore inglese, è stato fra quelli che si sono presi la briga di andare a leggere quelle norme e ha scoperto che i nostri dati, tutti i nostri dati, non finiscono nel nulla, come qualche ignaro potrebbe pensare, ma vengono estrapolati, analizzati e utilizzati da un’industria da un miliardo di dollari l’anno.

Carrol, con l’aiuto di un matematico, ha potuto verificare l’esistenza di un algoritmo che analizza questi dati o, se preferite, i nostri comportamenti (leggete, ovviamente, paure, timori, preferenze, desideri) e che riesce a emulare, con sempre maggior rigore, le nostre inclinazioni.
Scoprendo anche l’esistenza di alcune applicazioni che, scaricate su un telefonino, possono rubare tutti i nostri pezzi e avere accesso ai nostri SMS.

Forte di queste informazioni, Carrol ha percorso a ritroso la traccia delle sue molliche e si è ritrovato nel bosco, faccia a faccia con una società denominata Cambridge Analytica.

Fortunatamente per lui, altrove, per una nota testata inglese, il Guardian, anche la giornalista Carol Cadwalladr stava bazzicando gli stessi percorsi.
E anche lei stava giungendo alle stesse conclusioni: c’è qualcuno che ruba costantemente ciò che ci è più caro al mondo: foto, pensieri, sentimenti, contatti, movimenti, ricordi.

Qualcuno che prevede le nostre azioni, ci controlla e offre a qualsiasi acquirente la chiave per i nostri impulsi emotivi, i nostri segreti. In una parola, la nostra intimità.

“Se tutte le mie interazioni, le ricerche, i movimenti della mia carta di credito, localizzazioni, like, vengono raccolti in tempo reale e collegati alla mia identità” dice Carol “Io voglio averne il controllo. Voglio poter verificare cosa si conosce o meno della mia persona. Voglio poter secretare quei dati perché farlo è un mio diritto”.

E’ con questa convinzione che il prof decide di fare causa alla società che ritiene responsabile di questa appropriazione indebita.
E questa società è ancora e sempre Cambridge Analytica.
Il professore rivuole i suoi pezzi! E i suoi sospetti, incrociati con quelli della giornalista, dicono molto di più. Tutto sembra disegnare un collegamento fra la società, Facebook, Trump e la Brexit.

Il sospetto, in breve tempo si rivela una scoperta sconcertante.
Ma torniamo indietro di qualche anno.
Nel 2008, Obama ha già prodotto su twitter, per la sua campagna elettorale, una grande quantità di dati.
Qualcuno li osserva, li conta, li vede luccicare.
E’ da questo momento che tutto sembra avere inizio.

Un anonimo e divertente sondaggio, intanto, fa capolino su Facebook.
Il gioco (notare bene: non viene usato il gioco per trasmettere cultura ma per sorvegliare meglio) proposto agli utenti come mero intrattenimento si rivela una scellerata indagine per una ricerca psicografica.
Già, proprio così.
L’idea è scannerizzare la personalità di ciascun elettore. Perché ormai, l’assunto, per i data scientist, è scientifico: “è la personalità a condizionare il comportamento e il comportamento – Udite! Udite!- influenza il nostro voto.”

Conoscendo a menadito le nostre inclinazioni è più facile creare “messaggi” che contribuiscano a farci cambiare idea.
La tecnica consiste, dopo aver analizzato i dati e individuato i soggetti, nel creare qualsiasi tipo d’informazione che contribuisca a nuocere o a esaltare il prodotto che si sta pubblicizzando conformandolo, ma, se volete, anche distorcendolo, per attirare i naviganti a cui si desidera far invertire la tendenza.

Per stessa ammissione dei suoi dirigenti, i primi esperimenti di C.A. vengono fatti per la campagna di Ted Cruz nel 2016 (stiamo parlando degli USA).
Il soggetto è stato scelto perché è il candidato con minor indice di preferenze.
Tuttavia, Cruz, grazie a queste nuove tecniche di gioco, in brevissimo tempo trasforma il suo gradimento presso il pubblico a tal punto da diventare l’unico candidato alternativo a Trump.

Nel frattempo, le tecniche si affinano in paesi meno esposti.

Si puntano gli indecisi e fra questi c’è una grossa quota di elettori giovani.
Come catturarli?
Per metterli nel sacco si crea semplicemente un rap associato ad una danza che li inviti a NON andare a votare. Che li convinca che questo loro fondamentale diritto non sia da esercitare.
In che modo?
Associando deliberatamente colui che vota all’immagine di uno sfigato, di uno che non rappa e, naturalmente, non balla.
Il risultato è sconcertante ed eccezionale. I giovani non vanno a votare.
Insomma, la tecnica ha dato i risultati, perciò, ora, Cambridge Analytica è pronta ad affrontare Brexit, è pronta ad affrontare persino Trump.

Nasce, così, il progetto ALAMO, dove Trump investe un miliardo di dollari al giorno per inserzioni pubblicitarie su FB. E nella cui sede lavorano gomito a gomito dipendenti di Google, Facebook, Cambridge Analytica.
Se questo vi pare normale vi sbagliate di grosso.

“E’ inquietante la mole d’informazioni che possiamo raccogliere sulle persone e il bello è che sono loro stessi a fornirli” dichiarerà il leader pro Brexit Nigel Farage.

E così è.
Ah, un dettaglio: sapete chi ha inventato il nome per Cambridge Analytica? Un signore che si chiama Bannon. Già, mister Steve Bannon!

Intanto, la denuncia del professor Carrol ha determinato l’apertura di un’inchiesta.

Durante l’inchiesta emerge un dato a dir poco inquietante. Secondo i dirigenti della C.A. è sufficiente una profilazione di appena 200mila persone per delineare il profilo psicologico di ogni elettore degli Stati Uniti.

Fa effetto notare che, per le elezioni di Trump, in tre stati americani l’esito delle elezioni è stato deciso da appena 70mila elettori.

Durante le elezioni americane del 2016, a tutti coloro in grado di essere impressionati, vengono inviate immagini di Hillary Clinton che tossisce, che sviene. O, ancora, associata costantemente al termine bugiarda o peggio CROOCKED (che vuol dire corrotta) e dove le due OO vengono disegnate come manette.

Le inserzioni appaiono nelle pagine degli utenti selezionati e vi rimangono per un periodo di tempo limitato, cioè appaiono e spariscono, si muovono come tante illusioni.
In questo contesto, whatsapp ha un ruolo fondamentale nella diffusione delle Fake News.

Il New York Times rivela che durante questo periodo, l’influenza russa ha raggiunto, solo attraverso Facebook, circa 126milioni di utenti.

Ma è grazie a Brittany Kaiser, giovane stagista di Obama (che per vicissitudini personali si ritrova a lavorare alle dipendenze di Cambridge Analytica), che abbiamo finalmente una testimonianza diretta.
Brittany è una giovanissima dirigente descritta dal documentario con abilità toccante e trasparente.

La Kaiser, fragile, coraggiosa e controversa, ci conduce sulle tracce di Brexit, di Farage. E, da un resort in Thailandia dove si è nascosta prima del processo a C.A., è lei a fornire le prove delle connessioni fra Trump e il referendum su Brexit.
Ma non si limita a questo.

Parla anche di numerosi interventi determinanti per evitare l’entrata della Turchia nella UE.

Naturalmente, con l’avvio dei processi, C.A. chiude i battenti e c’è chi è disposto a giurare che lo smantellamento della società avvenga troppo rapidamente. Cosa c’era ancora da nascondere? Si domanderà qualcuno.

Zuckemberg, intanto, in qualità di testimone, dichiara al mondo che Facebook ignorava parte di queste connessioni.
Ma nel computer di Brittany appaiono prove circa l’esistenza di molti dati elaborati da C.A. e fra questi elementi analizzati vi sono 30 milioni di profili Facebook.

Se Zuckemberg ignorava tutto, chi li ha consegnati nelle mani di Cambridge Analytica?

Intanto, alla sua prima deposizione al parlamento Britannico, Brittany Kaiser conferma di aver rifiutato la Le Pen ma ammette di aver lavorato come dipendente C.A. per le campagne Trump e Brexit.
Appassionante il modo in cui il film ci racconta l’attesa e la deposizione della donna, nonché il suo travaglio personale e della sua famiglia.

Insomma, la carne al fuoco c’è e, per chi ha voglia di pensare, c’è molto di più.

Il documentario si chiude con le sofferte e oneste, seppur tardive, affermazioni di uno dei primi investitori di Facebook che ci spiega come il social sia stato progettato per monopolizzare le emozioni. E come alcuni strumenti della piattaforma siano stati creati prendendo a prestito le strategie basilari dei giochi d’azzardo e dei casinò.

Rivelando che il modo preferito per fare leva sugli istinti umani è utilizzare le frustrazioni e le paure. E che questo è un dato potentemente acquisito dai giganti del web.

Il film ci lascia con un’inquietante informazione: il dirigente della campagna TRUMP del 2016, che sostiene di aver creato 5,9 milioni di inserzioni su Fb contro le 66mila di Hillary, oggi sta già lavorando alla campagna TRUMP del 2020. E questo fa pensare che la prima guerra globale alla conquista dell’intimità umana sia solo cominciata.

Per concludere, THE GREAT HACK è un appassionante documentario che, sebbene vietato ai minori di 14 anni, andrebbe visto da tutti coloro che abbiano compiuto 14 anni e un giorno. E’ visibile su NETFLIX dal 14 luglio 2019.
Diretto da Karim Amer e Jehane Noujaim, The Great Hack è un contributo importante per chi vuole capire a che gioco si sta giocando sul web.

(Cyrus K. Cooper)

 

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